sabato 22 settembre 2012

Il mio articolo su "La Casa" (The Evil Dead) (1981) e "Within The Woods" (1978) per Horror.it



pubblicato su Horror.it:





La Casa (1981)

Within The Woods (corto) (1978)

Quando Sam Raimi e la sua troupe iniziarono le riprese di “The Evil Dead” (La Casa), nel 1979, non potevano immaginare cosa sarebbe diventato questo piccolo film, un low budget realizzato tra innumerevoli difficoltà nell’arco di tre mesi (e un anno e mezzo di post-produzione). La pellicola, originariamente in 16mm e successivamente stampata in 35mm per poter essere proiettata nelle sale, ha assunto lo status di cult assoluto e indiscutibile; il seme iniziale del suo successo può essere ritrovato nella penna di Stephen King, che ne scrisse un’entusiastica recensione per la rivista “The Twilight Zone”, dando così il via a un passaparola irrefrenabile che convinse la New Line Cinema a distribuirlo. King lo definì  “l’horror più ferocemente originale dell’anno” : contando che era il 1982, nel corso del quale uscirono titoli come “La Cosa” e “Poltergeist”, l’affermazione non poteva di certo essere presa alla leggera.

“La Casa” era il lungometraggio d’esordio per Raimi, che aveva già al suo attivo un buon numero di cortometraggi girati in Super 8, commercializzati a livello locale con buoni rientri economici. Tra questi, particolare attenzione merita “Within The Woods” (1978) (da alcuni ribattezzato “Evil Dead 0”) che contiene, in embrione, il canovaccio di trama e le idee che saranno alla base della pellicola successiva.
La squadra è sempre la medesima: anche qui troviamo Robert G. Tapert tra i produttori (insieme a Raimi e Campbell) e Bruce Campbell come protagonista (oltre a Ellen Sandweiss, che in “The Evil Dead” interpreterà Cheryl); il sodalizio Raimi/Tapert/Campbell, oltre ad essere il frutto di una grande amicizia, proseguirà negli anni, fino a oggi. E’ una componente fondamentale del successo delle opere di Raimi, una piccola “factory” affiatata che non si è disgregata col tempo.

Il talento del regista è già ampiamente individuabile, nelle tecniche di ripresa, e nelle trovate originali. Il cortometraggio, seppur condito dell’ironia di cui sarà pregno anche “The Evil Dead” (e capitoli successivi) riesce genuinamente a spaventare, usando il suono come componente principale dell’elemento-terrore. Il plot narra di un gruppo di amici che decide di trascorrere il weekend in una casa sperduta e uno di loro (inutile dirlo, Bruce Campbell), accidentalmente, sconsacra un cimitero indiano, trasformandosi in zombie e uccidendo i suoi compagni.

Il tormentone “Join Us” è già presente e le linee narrative sono la preparazione a ciò che si vedrà nel lungometraggio; il cimitero indiano è stato sostituito dal Necronomicon, in qualità di “fattore scatenante”, e il ruolo di Campbell è rovesciato: qui mostro, in “The Evil Dead” resta l’unico sopravvissuto umano. In questo piccolo video, si può già notare come il talento e le idee riescano a supplire all’assoluta mancanza di mezzi: il corto ha, ovviamente, i suoi limiti, ma resta un’ottima prova dell’abilità tecnica di Raimi.

Intercorre un anno, tra quest’opera e l’inizio delle riprese de “La Casa”: il budget di partenza era di 375.000 dollari, e la troupe era composta da 37 persone; con l’arrivo del freddo le condizioni di lavoro diventarono sempre più disagevoli, poiché lo chalet abbandonato nel quale venne girato il film (nella location di Mornstown, nel Tennessee) non aveva riscaldamento né acqua corrente, e i soldi terminarono. La maggioranza del cast artistico e tecnico abbandonò la lavorazione verso il periodo natalizio, a sei settimane dal primo ciak; Campbell ipotecò una proprietà di famiglia per permettere a Raimi di terminare il lavoro e di riversarlo in 35mm. Vennero utilizzati alcuni “doubles”, ossia sostituti degli attori (in particolar modo nelle scene di possessione demoniaca, nelle quali i volti erano celati dal trucco), definiti “fake shemps”, tra cui vi era anche l’allora quindicenne Ted Raimi, che in una sequenza vestì i panni di Cheryl demone nella botola.
Grazie al primo direttore della fotografia, che in seguito lasciò il set, ottennero a noleggio dall’Università, a prezzo scontato, due telecamere professionali, che altrimenti non si sarebbero mai potuti permettere. I make up fx, a opera di Tom Sullivan, considerata la povertà di mezzi, sono ottimi: la scena finale che vede i demoni disgregarsi richiese tre mesi di lavoro, con l’impiego di tecniche miste, tra cui l’animazione a passo uno.
Un film quindi pioneristico in senso stretto, girato in condizioni estreme, da un gruppo di amici mossi da una fortissima passione: ecco cos’è, in sintesi, “The Evil Dead”.

Il canovaccio narrativo è assai semplice, classico, ormai universalmente conosciuto: il tranquillo weekend di una combriccola di ragazzi si trasforma in incubo, in seguito al ritrovamento del Necronomicon, ossia “Il Libro Dei Morti”, contenente le formule in grado di evocare i demoni. La registrazione su nastro della voce di uno studioso, in cui egli recita le misteriose parole, scatena l’orrore: i demoni iniziano a impossessarsi dei personaggi e Ash/Campbell dovrà lottare contro di loro.

Bruce Campbell in quanto icona horror prende vita proprio in questo film, diventando successivamente mattatore incontrastato nei due, magnifici, sequel: “La Casa 2” (1987) e “L’Armata Delle Tenebre” (Army Of Darkness) (1992), che lo consacrano come interprete carismatico e fortemente ironico.
L’ironia, infatti, è parte integrante della pellicola, che unisce abilmente terrore e momenti di divertimento, battute e spaventi; una miscela non facile, ma qui perfettamente riuscita. Ash è l’anti-eroe per eccellenza, di certo non impavido, a tratti goffo ma comunque in grado di sconfiggere le forze maligne che si scatenano nella casa. E, soprattutto, nel bosco. Il titolo italiano ha spostato l’attenzione soltanto sul luogo abitativo: in realtà, ciò che lo circonda è determinante tanto nella narrazione quanto nella messa in scena.

Le sequenze in soggettiva, che rappresentano il punto di vista dell’entità maligna nel suo spostarsi velocemente tra gli alberi, senza venire mai mostrata, sono diventate  marchio di fabbrica della tecnica registica di Raimi: con il termine “Shaky POV Cam” (coniato dallo stesso Raimi, dove “POV” sta per “point of view”, punto di vista), si intende proprio questo uso particolare della macchina da presa. L’effetto si ottenne montando l’apparecchio sopra un’asse sorretta da due persone da ambo i lati, che si muovevano correndo. Un’idea semplice ma geniale, che rende l’idea della presenza in modo inquietante, innovativo e straordinariamente efficace: non solo non la si  manifesta agli occhi dello spettatore ma si fa in modo che egli acquisisca il suo punto di vista.
La scena finale è emblematica: Ash è rimasto solo, è l’alba, l’incubo pare finito; vediamo, nuovamente, lo sguardo demoniaco in soggettiva entrare rapidissimo nella casa, uscirne, e arrivargli alle spalle. Una prova di maestria registica, realizzata con una mdp montata su un’asse di legno, due persone che corrono, e altre ad aprire le porte. Una bella lezione, per i blockbuster a budget altissimi e tasso zero di creatività.

Raimi reinventa l’uso della ripresa in prima persona non solo con la “Shaky POV Cam”, ma anche donandoci i punti di vista dei demoni, con inquadrature inconsuete, bizzarre, spesso geniali.
Nel bosco ha luogo un altro momento assai significativo del film, ossia l’aggressione sessuale da parte di un albero ai danni di Cheryl (Ellen Sandweiss); l’idea iniziale non comprendeva l’aspetto carnale, che fu aggiunto nel corso delle riprese (la scena fu girata in piccoli segmenti nell’arco di molti mesi). Tecnicamente è assolutamente ben riuscita, credibile e realistica; risulta disturbante, senza dubbio inaspettata ma suscitò critiche talvolta feroci: Raimi venne accusato di misoginia e in seguito si dichiarò pentito di aver scelto di inserire questa sequenza, che venne censurata in molti Paesi.    

Tornando sull’argomento make up ed effetti, come si è già detto il lavoro può essere considerato ottimo, sebbene dai risultati discontinui: in alcuni momenti, ad esempio, l’uso di manichini è evidente, in altri il trucco è impressionante. La scena della prima possessione, quella di Cheryl, nella quale ella è alla finestra e si volta di colpo, mostrando il volto deturpato, provoca un sobbalzo. Le lenti utilizzate all’epoca per rendere l’occhio monocolore erano assai diverse da quelle odierne: fastidiose da indossare, potevano essere tenute per soli 15 minuti, durante i quali si tentava di girare il più possibile.
Eccellente l’idea alla base della trasformazione di Linda (Betsy Baker), la ragazza di Ash: ella diviene un essere diabolico bamboleggiante, che ride in continuazione, scostandosi così dagli altri personaggi e creando l’ennesimo tormentone uditivo.

Il suono, infatti, è componente centrale del film, così come lo era in “Within The Woods”; a partire dal magnifico score, composto da Joe Lo Duca, minimale, assolutamente inquietante, percussionistico, che dona al film gran parte della sua aura disturbante. Ogni elemento sonoro in “The Evil Dead” è fondamentale e studiato nei dettagli: dai tormentoni vocali (“Join Us”, la risata di linda, la nenia che canticchia “we’re gonna get you” ), all’ossessivo sbattere del dondolo contro la parete della casa, a inizio film, passando per il continuo percuotere di Cheryl/demone contro il coperchio della botola, fino ad arrivare alle sinistre voci demoniache, poco più che borbottii indistinti, eppure da pelle d’oca. Impossibile non citare la registrazione su nastro ritrovata nella casa, con la voce dello studioso che prima illustra il potere del Necronomicon, recitando poi le sinistre formule: la paura si insinua sia nello spettatore che nei protagonisti, in contemporanea, facendo così scattare il meccanismo d’immedesimazione che incrementa il quoziente di terrore.
La componente audio, più di ogni altra, possiede l’abilità di evocare paure inconsce, di annunciare l’orrore senza mostrarlo, rendendolo così assai più minaccioso.

Il film ha un alto livello di tensione, la suspense è dosata in modo egregio, anche grazie a un buon montaggio, altro punto forte del film; gli spaventi sono spesso improvvisi e imprevisti, i momenti di fiato sospeso riescono a essere incisivi ed efficaci.
“The Evil Dead” si conclude, come si diceva, con la memorabile sequenza in soggettiva e con l’urlo di Ash:a seguire, sui titoli di coda, una musica charleston di gusto comico, a simboleggiare la doppia faccia della pellicola, il coté horror e quello comedy.
Alla sua uscita, il film ebbe non pochi problemi con la censura: nel Regno Unito, fu uno dei primi titoli a essere inserito nella famigerata lista dei “Video Nasties”, un lungo elenco di pellicole ritirate dal mercato per mano della commissione censoria inglese nei primi anni ’80: è stato ridistribuito senza tagli soltanto nel 2001.

Il Paese che maggiormente si accanì contro “La Casa” fu la Germania: venne infatti bloccato per oltre 10 anni, sia nei circuiti delle sale che in quelli home-video, diventando così oggetto di culto nel mercato nero, nel quale proliferavano le copie pirata. Nel 1992 fu rilasciata una prima versione del film, pesantemente tagliata, e soltanto nel 2001, dunque come nel Regno Unito, si potè finalmente godere di un dvd uncut.

L’Italia, invece, decise di approfittare del successo di “The Evil Dead”, producendone dei sequel “apocrifi”, che, ovviamente, nulla avevano a che fare con l’opera originaria ma ne mantennero il titolo nostrano: “La Casa 3”(1988) di Umberto Lenzi, “La Casa 4” (1988) di Fabrizio Laurenti, e “La Casa 5” (1990) di Claudio Fragasso.

Nato per passione, sopravvissuto a mille ostacoli realizzativi, “The Evil Dead” è diventato culto oltre ogni aspettativa, portando così alla luce l’incredibile talento di Raimi e consacrando Bruce Campbell come nuova icona del cinema horror. Il tutto con due macchine da presa a nolo in una baita senza acqua corrente. Potere al low budget. 

Chiara Pani
(araknex@email.it)


La Casa (The Evil Dead)
USA - 1981
Regia: Sam Raimi




venerdì 21 settembre 2012

La mia recensione di "Snowtown" (2011) per Positifcinema


pubblicata su Positifcinema:

http://www.positifcinema.it/snowtown-di-justin-kurzel








Snowtown (2011)


Good Boy(s)




Ci sono film che dividono le platee, scindendole in fazioni, e altri che operano una divisione nello spettatore stesso, lasciandogli un senso di perplessità, un dubbio riguardante ciò a cui ha appena assistito, proiettandolo così in una zona grigia, una terra di mezzo. L’australiano Snowtown, opera prima del regista Justin Kurzel, può rientrare nel cerchio di queste pellicole ibride, davanti alle quali termini come “valido” o “non valido” diventano difficili da usare. Il film ha riscosso un grande successo di critica, facendo incetta di premi in numerosi festival; ciònonostante, durante la visione è difficile scrollarsi di dosso il sentore che qualcosa non torni, che manchi la scintilla che lo faccia decollare, rendendolo un’opera che possa inchiodarsi nella memoria, discostandosi dalle altre.

Snowtown è basato su una vicenda reale, quella di John Bunting (magistralmente interpretato da Daniel Henshall), definito “il peggior serial killer che l’Australia abbia mai conosciuto”: attivo tra il 1992 e il 1999, fu condannato all’ergastolo con l’accusa di undici omicidi (The Snowtown Murders, dal nome della cittadina del Sud Australia in cui vennero commessi); il suo (non unico) braccio destro nel killing spree fu l’inseparabile Robert Wagner (Aaron Viergever), anch’egli incarcerato a vita.

La pellicola si discosta, per molti versi, dai tipici clichés dei serial killer movies, adottando un’estetica puramente indie, dunque anch’essa legata a determinati stereotipi visivi: inquadrature ravvicinate, riprese apparentemente casuali, fotografia realistica e cruda. Ci si trova di fronte a un prodotto piuttosto standardizzato a livello di immagini, nel quale spicca il magnifico score, a opera di Jed Kurzel, e l’impianto sonoro in genere, nel quale i rumori hanno un ruolo fondamentale: amplificati, assordanti, dalla batteria suonata da Troy (Anthony Groves) fino alla tv, tenuta perennemente accesa per stordirsi, ipnotizzarsi, non pensare allo squallore dal quale si è circondati.

E’ un mondo crudo quello di Snowtown, il microcosmo di una periferia povera e rabbiosa nella quale il giustizialismo apparentemente protettivo di John, uomo dall’aria paciosa che mira a punire “pedofili e pederasti” confondendo un po’ troppo i due concetti, trova terreno fertile. Elizabeth (l’eccellente Louise Harris) è una donna divorziata con prole a carico, e troppi problemi sulla schiena: per lei ma soprattutto per il figlio  Jamie (un intenso Lucas Pittaway), John rappresenta l’ancora di salvezza, la figura paterna che rientra in casa, colui che sistema le cose dopo che un vicino si è rivelato eccessivamente interessato ai bambini di Elizabeth. Dalla vendetta alla caccia all’uomo il passo è breve: Bunting tiene comizi casalinghi aizzando la comunità contro “questi esseri turpi” che minacciano i loro figli, predica il giustizialismo per difendere i sani principi, mentre in casa sua c’è il rock spider wall: un muro tappezzato di nomi e fotografie di presunti pedofili e omosessuali, intrecciate tra loro mediante fili, come mosche in una ragnatela, vittime predestinate di un insetto pingue e in apparenza dormiente.

Il film si focalizza sul rapporto tra John e Jamie, che diventerà il suo secondo complice, insieme a Robert; il ragazzo è fragile, privo di punti di riferimento, e Bunting ha gioco facile nel tirarlo a sé, rendendolo un assassino. Dal “battesimo” dello sparo al cane in avanti, il percorso di formazione di Jamie in quanto killer è costellato da rimorsi, sensi di colpa e lacrime, davanti alle quali il suo paffuto mentore lo apostrofa con un “you fuckin pussy” per poi consolarlo con un bel “good boy”, sapendolo ormai obbediente e sottomesso.  

Nonostante un buon plot, adattato da due libri, una regia tecnicamente valida benchè senz’anima, troppo attenta a non sporcarsi realmente, e alcune sequenze assai efficaci, il film lascia l’impressione di non essere del tutto riuscito, di quel qualcosa che manca, l’assenza di quel morso a fondo  che in una narrazione come questa dovrebbe essere indispensabile. Troppo freddo e perfettino, per essere la storia del peggior serial killer che l’Australia abbia mai conosciuto.  

Chiara Pani
(araknex@email.it)



Snowtown
Australia - 2011
Regia: Justin Kurzel

giovedì 20 settembre 2012

Alejandro Amenabar, L’ultimo spettacolo, di Luca Lombardini

Oggi ho il piacere di presentarvi la mia recensione di un saggio dedicato al regista spagnolo Alejandro Amenabar e pubblicata su Horror.it

http://www.horror.it/a/2012/09/alejandro-amenabar-lultimo-spettacolo-luca-lombardini/ 

Scritto dal giovane critico Luca Lombardini (Close Up,Taxidrivers.it , solo per nominarne un paio), il volume è imperdibile per i fans del regista spagnolo ma anche per chi ha desiderio di conoscerlo meglio: ricco, assai ben documentato, e di appassionante lettura, lo consiglio caldamente



Alejandro Amenabar, L'Ultimo Spettacolo - Di Luca Lombardini


Volume assai interessante e approfondito questa monografia dedicata ad Alejandro Amenabar, scritta da Luca Lombardini e pubblicata a Febbraio per la Sovera Edizioni.
Il giovane saggista, nato ad Aprilia nel 1981, redattore per numerose testate online e per la rivista di critica cinematografica Close Up, è alla sua seconda opera monografica, dopo Brucia Ragazzo Brucia, l’ottimo saggio dedicato a Danny Boyle, sempre per la casa editrice Sovera.

Alejandro Amenabar – L'ultimo spettacolo, è il primo testo italiano sul regista di natali cileni e spagnolo d’adozione; Lombardini si conferma autore e critico attento e appassionato, offrendoci una lettura sempre agile, scorrevole, e di indubbio interesse anche per i neofiti del cinema di Amenabar. Il saggio passa in rassegna sia la poetica del regista che le singole opere in modo mai noioso, evitando la trappola degli accademismi facili, delle analisi tediose, offrendo quadri assai completi, corredati da approfondimenti interessanti e ricchi di spunti.


Tesis (1996), lungometraggio d’esordio di Amenabar, realizzato a soli 23 anni, e The Others (2001), rappresentano i due thriller/horror, entrambi fondamentali nella carriera del regista: Tesis, in quanto opera prima, The Others non solo in qualità di pellicola che segna il passaggio statunitense di Amenabar ma che rappresenta, in primis, uno spartiacque nella sua filmografia.


L’ottima analisi di Tesis è corredata da un interessante e inconsueto approfondimento sulla tematica degli snuff-movies, così come The Others è sviscerato in ogni suo aspetto, con notevoli rimandi letterari, a scoprirne ogni sfaccettatura. Ogni film del regista è affrontato in maniera minuziosa, appassionata ma soprattutto appassionante: uno dei grandi pregi del libro è di spingere il lettore a voler immediatamente rivedere (o vedere, se ancora non l’avesse fatto), i film in oggetto.

Alejandro Amenabar – L'ultimo spettacolo è dunque un testo prezioso, imperdibile per gli amanti del regista, ma anche per chiunque abbia il desiderio di conoscerlo meglio: in un’editoria cinematografica che spesso pecca di prolissità, che tende a essere polverosa e distante dal lettore, il saggio del giovane Lombardini spicca per la sua freschezza, per l’abilità di unire un linguaggio agile e comprensibile a un grande bagaglio di conoscenza della materia e a una passione palpabile. Un libro che si legge con grande piacere, e un autore/saggista da tenere assolutamente d’occhio.

L’ autore

Luca Lombardini nasce ad Aprilia nel 1981. Nel 2006 si laurea in Scienze della Comunicazione con la cattedra di Strumenti e tecniche del linguaggio audiovisivo presso l’Università La Sapienza di Roma. E’ redattore per le testate online www.positifcinema.it www.silenzio-in-sala.com www.taxidrivers.it www.ingenerecinema.com e per la rivista di critica cinematografica Close Up. Alejandro Amenbar – L'ultimo spettacolo è il suo secondo saggio pubblicato dalla Sovera, segue infatti a Danny Boyle – Brucia ragazzo brucia.

domenica 16 settembre 2012

Malastrana VHS - Quello che i DVD non vogliono farvi vedere






Dopo Malastrana , la fanzine cartacea alla quale collaboro e che è in procinto di risorgere col secondo numero (il numero 0 è scaricabile in formato PDF a questo link), arriva un nuovo progetto, sempre ideato e curato da Andrea K. Lanza: Malastrana VHS.

Malastrana VHS vuole essere ciò che non esiste più da tempo, ossia una guida ragionata alle videocassette, oggetti in via d'estinzione ma ancora preziosi, non solo per i collezionisti, ma anche per chi è alla ricerca di quei film che su DVD non sono reperibili. E non sono pochi. Fino a poco tempo fa anche grossi titoli (uno su tutti: M Butterfly, di David Cronenberg), erano inesistenti su supporto digitale. Ora, il mercato dei Digital Versatile Disks ha colmato gran parte delle lacune (si noti bene: il mercato internazionale, perchè quello italiano ha ancora assenze imperdonabili), ma tanti piccoli titoli di nicchia, inseguiti dagli amanti del cinema di genere, continuano a latitare da questo tipo di mercato. Malastrana VHS vuole dunque essere, innanzitutto, fonte di indicazione per ciò che i dvd non ci offrono, ma è anche un sincero e nostalgico omaggio ai nastri con i quali molti di noi sono cresciuti, ricordando l'entusiasmo per il primo videoregistratore, spesso duramente conquistato, per i film a cui si dava la caccia per mesi. Ora, nell'era del clicca e guarda, gran parte di quell'entusiasmo si è perso, noi di Malastrana VHS vogliamo ravvivarlo, e ricordarlo. 

Buona lettura, e felici nostalgie :)     

Nocturno di Settembre - Dossier Alien





Oggi sono in vena :) Dunque vi segnalo che su Nocturno di Settembre, che trovate in edicola, all'interno del Dossier dedicato alla saga di Alien, c'è un mio piccolo ma appassionato saggio sulla figura di Ripley, mia icona filmica da molti anni. Ellen è analizzata in quanto Donna-Madre-Guerriera; chi mi conosce e mi segue, sa che il saggio/analisi è la forma scrittoria che amo di più, poichè mi consente di spaziare, collegandomi ad argomenti diversi. In questo scritto parto dagli archetipi, per delineare ciò che vedo nella figura di Ripley e nelle sue manifestazioni del Femminile. Buona lettura, per chi vorrà dedicarvi un po' di tempo :)

Chiara

Altrisogni - rivista digitale di horror, sci-fi e weird

Oggi voglio segnalarvi una bella iniziativa edita da www.dbooks.it

Si tratta di Altrisogni, rivista in formato digitale a tematica horror, sci-fi e weird 





Altrisogni è un progetto di Christian Antonini e Vito di Domenico, sfogliandola via web vi troverete catapultati in un universo ricco, dall'immaginario variegato ed allettante. Fotografia, interviste, progetti di scrittura collettiva, questo e molto altro per una pubblicazione che è davvero qualcosa di nuovo in un panorama sovraffollato. Tenetela d'occhio. Un grazie speciale per la segnalazione alla fotografa (e amica) Samuela Iaconis, autrice dell'immagine che vedete in copertina e dei bellissimi scatti presenti in questo numero, il 5, incentrati su una rivisitazione in chiave dark di Alice nel Paese delle Meraviglie.   


http://altrisogni.blogspot.it/

http://www.altrisogni.it/ 

http://www.facebook.com/Altrisogni 

mercoledì 12 settembre 2012

La mia recensione di "Tyrannosaur" (2011) per Positifcinema



pubblicata su Positifcinema:

http://www.positifcinema.it/tyrannosaur-di-paddy-considine








Tyrannosaur (2011)

 

We Were Wasted



Emana una potenza devastante, dietro l’apparenza ingannevolmente dimessa da british working class movie, questo Tyrannosaur, esordio nel lungometraggio per Paddy Considine, già noto come (eccellente) attore, in particolar modo per il sodalizio con il regista Shane Meadows (Dead Man’s Shoes, co-sceneggiato, oltre che interpretato, da Considine); quest’opera prima estende e sviluppa il narrato del cortometraggio Dog Altogether (2007), del quale conserva i medesimi interpreti e personaggi. La figura del protagonista, Joseph (un Peter Mullan sulla cui fisicità il ruolo è plasmato come in un calco), è liberamente basata su quella del padre di Considine, così come la sua defunta moglie porta lo stesso nome della madre del regista, anch’ella non più nel regno dei vivi, Pauline, alla quale il film è dedicato. Un continuo fondersi di arte/vita che rimanda in modo immediato non soltanto alle opere di Meadows ma a tutto il cinema britannico iper-realista e senza compromessi, dagli ormai monumentali Ken Loach e Mike Leigh fino all’ultima generazione, della quale il giovane attore-regista dello Staffordshire entra a far parte a pieno diritto.

Tyrannosaur parla di rabbia, odio, dolore, solitudine, redenzione in quanto cambiamento, ma anche e soprattutto di come le apparenti differenze tra individui si annullino nel buco nero di un male di vivere che non lascia tregua. Joseph è vedovo, alcoolizzato, pervaso da un’ira incontrollabile, una tristezza che diventa violenza e odio e che sfoga anche contro chi non se lo merita; la sequenza iniziale è emblematica nel presentare il personaggio, che vomita la sua rabbia uccidendo a calci il proprio cane (“il mio amico”), per poi riportarlo a casa tenendolo amorevolmente tra le braccia, e seppellirlo in giardino.  

Hannah (una straordinaria Olivia Colman), lavora in un charity shop, è sposata, abita in un bel quartiere, ed è una fervente Cristiana.
La devastazione di Joseph non ha filtri né schermi, è costantemente mostrata, scaraventata all’esterno, nei suoi improperi che diventano pianto, negli attimi di delirio e smarrimento, nel cumulo di collera che deflagra, tentando di distruggere quel dolore che lo divora dall’interno. La disperazione di Hannah, per contro, è occultata, compressa, celata dalle apparenze di un matrimonio senza pecche ma in realtà devastante, mentre la ferita aperta di una maternità impossibile è tamponata da preghiere inutili e da bicchieri di vino che si svuotano sempre più in fretta. Joseph esplode, Hannah implode. 

Queste due umanità all’apparenza così diverse, schiacciate da macigni al tempo stesso opposti e simili, si incontrano. Il loro avvicinamento è scambio inconsapevole, ognuno assorbe qualcosa dall’altro, in entrambi avviene un cambiamento in modo lento, sottile, sottopelle, ma non per questo meno profondo. Tyrannosaur ci dona un finale magnifico, che arriva dritto all’anima, sulle note della splendida We Were Wasted dei The Leisure.

Nel corso della narrazione vediamo Hannah imprecare e scagliare oggetti contro un quadro di Gesù, e sentiamo Joseph ammettere di aver pregato senza rendersene conto. Ognuno di loro, ha preso dall’altro qualcosa che gli mancava, e di cui aveva bisogno, per uscire dalle proprie sabbie mobili, per fare un semplice ma determinante passo avanti.

Non è una miracolosa redenzione quella che vediamo avvenire in Joseph: è un percorso doloroso durante il quale egli impara ad accettare nuovamente un’altra persona nella propria vita, e ad affrontare i demoni che si porta dentro da troppo tempo;  Hannah trova catarsi e liberazione in un gesto estremo che forse non avrebbe mai compiuto se quel giorno, nel suo negozio, non si fosse presentato quell’uomo, in fuga da un gruppo di teppisti.

L’amicizia/amore come cura del proprio male e del mostro che mette radici nell’anima, senza facili miracoli o illusorie luci in fondo al tunnel, bensì con un semplice, casuale, improbabile incontro.


Chiara Pani

(araknex@email.it)


Tyrannosaur
Uk - 2011
Regia: Paddy Considine